
I MATER sono un gruppo bolognese composto da Riccardo Fedrigo, Alessandro Donegà, Riccardo Roncagli e Daniele Benasciutti. La band prende il nome dalla traduzione latina di “Mother”, il brano di John Lennon che apre l’album “Plastic Ono band”, primo lavoro solista dell’ex Beatles. Hanno all’attivo un EP autoprodotto intitolato “Not this time” pubblicato nel marzo del 2022. “Lollipop” è il nuovo singolo della band, che anticipa l’uscita dell’EP “Vear”, disponibile dal 27 ottobre 2023 su tutte le piattaforme digitali e in rotazione radio, pubblicato e distribuito da (R)esisto. Produzione artistica Michele Guberti (Massaga Produzioni), realizzato presso il Natural Headquarter Studio di Ferrara.

RINGRAZIAMO I MATER PER AVERCI CONCESSO QUEST’INTERVISTA

RISPONDE IL FRONTMAN DELLA BAND RICCARDO FEDRIGO
1) Com’è nato il nome della vostra band? Potreste raccontarci anche un po’ la storia della vostra band?
Dal brano “Mother” in cui John Lennon racconta la sofferenza della ferita mai guarita per la perdita di sua madre. Tre di noi hanno dovuto affrontare questa esperienza e quando è venuta fuori l’idea di usare quel pezzo come nome per la band siamo stati tutti d’accordo. Ma non volevamo usare né l’inglese né l’italiano, il latino è stata una perfetta via d’uscita. Siamo nati come trio poco prima di Natale 2019. Venivamo tutti da band di lungo corso e, per un motivo e per l’altro, eravamo fermi. Ma non avevamo voglia di rinunciare. Ci siamo incontrati senza un obiettivo preciso, tranne che quello di buttare giù della musica e vedere cosa succedeva. Dopo le prime tre ore in sala insieme ci siamo ritrovati con le tracce di base di quattro pezzi e abbiamo deciso di continuare a lavorarci. Dopo un mese si è unito a noi Ronk, al basso. Purtroppo a febbraio 2020 è arrivato il Covid e abbiamo dovuto proseguire la nostra attività prevalentemente a distanza, scambiandoci idee via Whatsapp. Tutte le volte che si poteva andavamo in sala prove con brani nuovi su cui lavorare. In due anni di stop forzato abbiamo messo assieme un repertorio abbastanza ampio che abbiamo iniziato a proporre dal vivo appena ce n’è stata l’occasione.
2) C’è stato qualche episodio particolare che ti ha fatto sentire il bisogno di scrivere le tue canzoni? Qual è stato il vostro percorso formativo e che cosa vi ha influenzato di più?
Non parlerei di episodio. È più un’esigenza, quasi un’ossessione. Da quando ero piccolo (15, 16 anni) ho sempre preso nota di frasi, immagini, nomi, situazioni che mi ripromettevo di usare quando mi fossi trovato a scrivere canzoni. Prima sui quaderni, poi taccuini, poi sul telefono. E anche adesso non è che mi imponga di scrivere, sento sempre l’esigenza di suonare qualcosa e un passaggio, un suono, un accostamento di note o accordi, magari qualche diteggiatura particolare mi fa scattare come un campanello, un allarme che mi dice che c’è qualcosa che potrebbe saltare fuori da lì. Spesso mi capita nei momenti meno opportuni, quelli in cui mi è particolarmente difficile o scomodo fissare un’idea. Se sono in condizioni troppo confortevoli non c’è pericolo che salti fuori niente, ma, per dire, una volta ero in treno, col telefono scarico e 3 ore di viaggio davanti e mi è venuto in mente il nucleo di un pezzo che mi sono ripetuto in testa a loop fino a che non sono arrivato a casa, perché sapevo che non lo avrei mai ricordato se mi fossi ripromesso di pensarci dopo. Personalmente sono sempre stato affascinato dalle storie degli artisti e delle band, mi piace indagare i processi creativi di canzoni, album e anche tour. Non necessariamente dei gruppi che preferisco. Per esempio: chiedo scusa, ma a me i Rolling Stones fanno, complessivamente, schifo. Tuttavia l’autobiografia di Keith Richards l’ho letta in due giorni e sentirlo raccontare del suo approccio alla composizione e alla registrazione è stato di immensa ispirazione. È chiaro che ho molti modelli, ma non mi interessa copiare il risultato del loro lavoro. Delle due vorrei imparare a entrare nei percorsi che li hanno portati a fare quello che hanno fatto.
3) L’EP “Vear”, è uscito il 24 novembre del 2023, potete parlarci di questo lavoro e di quello precedente? (Not This Time)
Parto dal primo. “Not this time” per noi è stato quello che una volta si chiamava “demo”. Volevamo un biglietto da visita con il quale proporci in giro a chiunque potesse essere interessato al nostro lavoro. Ci abbiamo messo dentro i pezzi sui quali ci sentivamo più sicuri, il risultato di due anni di lavoro. Più che per il pubblico era un prodotto per “addetti ai lavori”. Lo abbiamo spedito in giro per il mondo, a oltre 300 etichette. Siamo rimasti molto lusingati della risposta arrivata da Slim Moon, un musicista americano, fondatore dell’etichetta Kill Rock Stars che nei primi anni 90 gravitava nell’area di Seattle e aveva organizzato diversi concerti di band locali, fra le quali i Nirvana dell’era pre-Dave Grohl. Ci ha fatto un sacco di complimenti e ci ha invitato a tenerlo aggiornato sulle nostre attività. Ma la risposta chiave è arrivata da (R)esisto distribuzione che ci ha invitati a Ferrara a fare due chiacchiere sul nostro materiale e ci ha proposto di lavorare insieme. “Vear” è il primo risultato di quell’incontro. Grazie alla programmazione di Max Lambertini e all’impagabile lavoro di produzione di Michele Guberti, abbiamo individuato le quattro tracce ideali per un EP… ed eccoci qua.
4) Quanto tempo ha richiesto la realizzazione dell’EP e dei dischi?
Abbiamo registrato “Vear” in circa 10 giorni. Prima Michele ha smontato e rimontato i pezzi come li sentiva lui, per farci capire che paesaggi aveva in mente. Una volta tracciato il percorso le riprese sono state molto veloci e lui in fase di mixaggio e masterizzazione è stato eccezionale.
5) Attualmente, è difficile pubblicare: un disco, un EP, un singolo o un videoclip?
Attualmente è difficile tutto. Quelli che hai citato sono tutti concetti legati a un’industria discografica che non esiste più. Credo sia proprio cambiato il modo di intendere la produzione di musica e di tutto quello che le ruota attorno. Per cui credo sia più facile quando sei calato nella logica contemporanea. Noi siamo old school, per quello ti dico che è difficile. Perché ormai pochissimi si muovono come si faceva una volta.
6) Quanto di personale c’è nei vostri brani?
Tutto. Per me è quasi impossibile scrivere di qualcosa al di fuori di me. Non è egocentrismo, è che non sono proprio capace di scrivere una canzone dicendo: “adesso parlo di questo argomento”. È veramente uno scavarsi dentro, continuo. È molto faticoso, spesso scomodo. A volte anche doloroso, nel senso che mi capita anche di trovarmi a disagio se vado toccare parti di me…diciamo più problematiche. Però la fonte, per quello che mi riguarda, è quella. È da lì che sgorgano le canzoni.
7) Siete una band che scrivete molti pezzi oppure hanno difficoltà a nascere?
La cosa che ci ha sorpreso da subito è stata proprio quanto ci venisse facile scrivere canzoni. Oh, sia chiaro, non tutte belle eh?! Però quando scrivi tanto se anche esce roba che fa schifo te ne freghi e passi ad altro. Quando scrivi una canzone ogni tre mesi hai molte più remore a buttare via tutto.
8) Da dove traete ispirazione? Avete qualche tipo di rituale prima di iniziare a lavorare?
Cerchiamo sempre di proporre dei nuclei di canzone, qualcosa che abbia già un giro o due con sopra un’idea di melodia. Personalmente lo considero un modo di sfuggire all’insidia del “bel pezzo di musica” del quale però non sai cosa farti. Quando vuoi usare un passaggio a tutti i costi ma non hai una direzione rischi di perderti in migliaia di ipotesi che ti disorientano e basta. Siamo un gruppo che fa canzoni. Che è solo uno dei tanti modi di intendere la musica. Tanti artisti lavorano sulle atmosfere, sul sound, sulle dinamiche. Tutti aspetti fondamentali ma, per come lavoriamo noi, la priorità, le fondamenta, sono rappresentate dall’idea del pezzo, dalla sua identità. Che può anche cambiare, ma è importante averla come riferimento.
9) Come reagite quando hai un blocco creativo?
Non credo esista il blocco creativo. A volte viene da scrivere. Altre no, tutto qui.
10) Come giudicate l’uso della tecnologia e dei social media al servizio della musica?
Sono due aspetti molto diversi. Ma sono entrambi strumenti. E, come tali, dipende solo da come vengono usati. Possono essere utilissimi fino a che sei tu a usarli. Se ne diventi schiavo, hai fallito.
12) Il ruolo dei cantautori e delle band è sempre stato soggetto a cambiamenti. Qual è la vostra opinione sui compiti (ad esempio politici / sociali / creativi) degli artisti di oggi e come raggiungete questi obiettivi nel vostro lavoro?
Parere personalissimo e del tutto opinabile: per me il dovere di chi si esprime attraverso qualunque forma d’arte è quello di usare dei canali espressivi per rendere visibile a chiunque li voglia vedere degli aspetti della realtà che, diversamente, rischierebbero di passare inosservati. L’artista, per me, è colui che ha la sensibilità di vedere lo straordinario nell’ordinario ed è in grado di usare una o più espressioni artistiche (musica, letteratura, danza, pittura, scultura, quello che vuoi…) per rendere partecipe il “pubblico” delle sue sensazioni. Tutto il resto è incidentale. Non ho alcun interesse per l’arte che si propone in partenza come veicolo di messaggi socio politici. Se poi chi mai ci ascolterà si dovesse sentire coinvolto o identificarsi in qualche modo, ben venga. Ma non è il nostro scopo. Noi vogliamo fare la musica più bella di cui siamo capaci e condividerla con chi ha voglia di sentirla.
13) Che consigli dareste ai nuovi artisti che desidererebbero emergere?
Cosa intendiamo per “emergere”? È un discorso insidioso perché spesso si finisce poi a porsi il problema del “successo”. Che però non c’entra niente. Intendiamoci, non siamo qui a fare i duri e puri: se domani ci fanno un contratto per 10 album con la Universal e ci danno un anticipo di un milione a testa nessuno si rifiuta! Forse non siamo i migliori interlocutori per questo tipo di domanda, perché per i canoni più diffusi non siamo esattamente emersi, non siamo certo quelli che “ce l’hanno fatta”. Quello che posso dire è che noi suoniamo, andiamo in sala prove e sul palco con l’intento di uscirne soddisfatti di noi stessi, senza avere rimpianti. Ma non per il trito e ritrito: “noi suoniamo per noi, non ci interessa quello che pensano gli altri, ci basta la nostra musica”… sono cazzate. Però quello che ci dà gusto, la spinta, il motore di tutto è quella sensazione di aver dato il massimo, di aver provato tutte le soluzioni fino a che non abbiamo trovato quella che ci fa dire che la canzone che stiamo scrivendo è una figata, che vorremmo ascoltarla perché ci sembra bellissima. Oppure scendere dal palco sfiniti sentendo di aver fatto lo show migliore che potessimo fare. È chiaro che farlo davanti a 1000 persone è meglio che davanti a 8. Però quelle sono cose che vengono dopo. Sarano 1000 se quello che piace a noi piacerà anche ad altri 1000. Se no, boh, ci penseremo poi.
14) Gli artisti spesso vivono immersi nelle emozioni del presente. Il futuro vi spaventa? Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Vogliamo suonare. Scrivere, registrare e suonare dal vivo. Il resto sono domande troppo complicate!.